“A s’iscuru Compare mi che ‘ortat in Boe, borro che·i su mare e gherro a malu proe” (Al buio Compare mi trasforma in Bue, muggisco come il mare e combatto come un cattivo prode) sono le prime due strofe della canzone di Piero Marras intitolata “Boe Muliache”.
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In poche parole, il cantautore sardo racconta la leggenda secondo cui all’imbrunire alcuni uomini si trasformano in essere malvagi, raffigurati come mezzo uomini e mezzo bestie; anzi, più precisamente, mezzo uomini e mezzo buoi. In altri tempi, queste figure mitologiche si chiamavano “Minotauri”, da Minus-Taurus (quasi toro).Nell’antichità, i soldati posti a difesa delle città osservavano i turni di guardia notturni che andavano dalle sei del pomeriggio alle sei del mattino. Questo lasso di tempo era diviso in quattro parti di tre ore ciascuno. Il primo turno era detto in latino Hesperus, come il nostro sardo Pèsperu (senza la –s sigmatica del nominativo), e vuol dire in italiano Vespero. I Romani avevano fatto fuori la consonante iniziale /P/ per mostrarsi vicini al greco Ἥσπερος (Ésperos), ignari che i Greci avessero in tempi ben più remoti preso questo lemma in prestito dai Sardo-Pellasgi.Il quarto ed ultimo turno di guardia andava dalle tre alle sei del mattino e veniva appellato Gallicinium, termine composto da Gallu e da Luciniu, quest’ultimo pronunciato Luchinzu, così chiamato perché annunciava l’alba del Gallo, a cui si rifacevano i coronimi della Gallura, della Galilla (Sarrabus Gerrei) e della Luchia (Baronia) sarde, che vedevano il sole mattutino sorgere sul mare a Oriente. Il primo e l’ultimo quarto di turno erano contrassegnati dal passaggio nel cielo della stella Lucifer, ovverosia del pianeta oggi denominato “Venere”, che era visibile nel cielo notturno solo all’imbrunire e all’alba.I Romani avevano rinominato Lucifer con “Venere, stella del Mattino” per venire incontro ai Greci che la definivano allo stesso modo. Inoltre, sempre per seguire la lingua greca, i grammatici latini avevano troncato la vocale finale del nome nel nominativo singolare per farlo corrispondere alla terza declinazione greca con l’uscita in consonante. I Sardi hanno però sempre mantenuto la loro lingua e chiamato questa stella Lutziferru (Lucifero). Il suffisso Ferru, in latino Ferox, prima che comparisse l’omonimo metallo, significava “tenacia” o “coraggio”. Pertanto, il composto risolve in “luce = Lutzu” e “feroce = ferru”. Ancora oggi, il cognome sardo Lutzu è proprio delle Baronie (Luchia), dove era sorta in antichità la città di Feronia, lessema pronunciato Ferronza, centro individuato nell’odierna Posada.“Cando arveschet die so unu cristianu, siat chi fetat nie o sole su manzanu, ma cando torru a Cuddu sos balentes si trèmene, sa pedde atuddu atuddu, malaitu su sèmene” (Quando sorge il giorno sono un cristiano, sia che faccia neve o sole il mattino, ma quando ritorno ad essere Quello, anche i valorosi tremano, con la pelle d’oca, maledetto il seme) riprende Piero Marras nella sua canzone. In altre parole è di notte che l’uomo si trasforma in Bue, poiché è solo nel cielo notturno che si può osservare la costellazione del Toro, detta in antichità del Boe, che si presentava al crepuscolo intorno al 21 marzo, nel giorno dell’equinozio di primavera, e dava inizio nella prima domenica successiva di luna piena alla Pasqua, festa dei Pastori o degli Allevatori.Le protomi taurine tracciate dalle stelle della costellazione del Boe sono riportate in tantissime Domus de Janas, ma la venerazione per questi astri era proseguita anche nel periodo del Bronzo quando pure le “Tombe dei Giganti” disegnavano con l’esedra l’architettura stellare delle corna del bue. “Boi” era inoltre l’etnonimo di una antica popolazione che aveva colonizzato, tra gli altri, l’Appennino Emiliano, una parte del Danubio e della Grecia. Boe e Boi sono due cognomi sardi attestati prevalentemente nel Nuorese e nell’Ogliastra, dove il passo di Corru ‘e Boi segna ancora oggi una parte del loro territorio.Il testo di Piero Marras chiude con il ritornello “Non m’ammento ne tempus e ne logu cando intro cun Dimònios in giogu” (Non ricordo né tempo e né luogo quando entro con i Demoni in gioco). Entrare “cun Dimònios in giogu” è un detto sardo rivolto a chi, mutandosi in Demone, inizia a trasformare il gioco in guerra. “Si sunt pesende totu sos Dimònios” (Si stanno alzando tutti i Demoni) si dice ancora quando il tempo minaccia temporale. Nella tradizione sarda, pertanto, i Demoni sono sempre esistiti, anche prima che la Chiesa cristiana li trasformasse in antagonisti di Dio o di Cristo. A questo punto occorre chiedersi: perché nell’immaginario cristiano i Demoni sono rappresentati con le corna?Il termine sardo “Dimòniu” è un’acquisizione relativamente recente o una corruzione temporale che però conserva antiche radici. In latino, ad esempio, l’aggettivo “daemoniacus”, senza la desinenza -s del nominativo, doveva essere letto come “demonzacu”, poiché il dittongo –ae- si leggeva –e- e il nesso consonantico atono n+i+vocale come una /z/ sonora [dz]. Per cui l’aggettivo risolveva in “De-Mònzacu”, in cui il prefisso De- denotava appartenenza e l’aggettivo Monzacu si trasformava nel sostantivo Monza- perdendo il suffisso aggettivale finale –cu. In sintesi, l’estensione grafica “Monia” veniva pronunciata “Monza” in logudorese e “Mòngia” in campidanese.In sardo sono chiamate “Monza” o “Mòngia” sia la suora religiosa sia la chiocciola monzetta. Che cosa hanno in comune la Monaca e la Monza? Con un gioco di parole sembra quasi richiamare alla mente la famosa storia della “Monaca di Monza”, al secolo Marianna de Leyva, divenuta Suor Virginia Maria, raccontata con altre vesti dal Manzoni nel romanzo “I Promessi Sposi”. In effetti, Monaca è il nome attuale dell’originario Mòn[i]aca, a cui è stata sincopata la /i/ che preceduta da consonante e seguita da vocale esprimeva il suono consonantico della Zeta sonora. Pertanto, si ritorna all’aggettivo Mònzaca che con il prefisso De- di appartenenza diventa De-Monzaca, scritto Demoniaca.La storia linguistica del latino ha dell’incredibile. Quando i Romani decisero nel 240 a.C. di inserire i morfemi nominali del greco nella radice sarda della loro lingua, l’ibrido creato, incomprensibile al popolo, divenne presto lingua morta. Tale lingua scritta, ripresa della Chiesa che a partire dal III secolo dopo Cristo era diventata Religione di Stato, venne letta non più con le regole grammaticali originarie ma con quelle coeve dei tempi in cui fu utilizzata. Pertanto accadde che per alcuni termini si perse l’etimologia e, nel caso specifico, venne chiamato De-Monius il diavolo, l’antagonista di Cristo, senza sapere che il Moniu o la Monia erano in origine il Mon[i]aco o la Mon[i]aca, ossia coloro che professavano la religione, e si leggevano rispettivamente Mòngiu o Monza.Mòngiu è oggi un cognome sardo, riportato quindi al maschile, mentre Monza è la religiosa o suora, sostantivo che esce al femminile. Entrambi hanno un nesso che li lega alla Monza chiocciola: le corna. In antichità, i sacerdoti così come i guerrieri sardi erano provvisti di elmo cornuto e, figuratamente, riprendevano le corna della chiocciola, simili a quelle del boe, epiteto dato all’omonima costellazione. Solo chi aveva l’elmo cornuto poteva deporre nel tribunale degli uomini liberi ed essere chiamato quindi a testimoniare, da cui Testi-monium, in sardo Testi-monzu o Testi-mòngiu, vale a dire con l’elmo cornuto in testa.La chiocciola è chiamata in sardo in diversi modi: gioga, croga, zoga, monzu (Logudorese); croca, crochedda, corchedda, crogu, baticorri, tapacorra, tabacorra, vaca de corru, corru de vacca, corrobaca, bacacorru, vacacorru (Nuorese); cincicorru, sicigorru, sissigorru, sintzigorru, sitzigorru, tzintzigorru, bitzigorru (Campidanese). Il suffisso “Corru” è facilmente individuabile nel “Corno”, mentre il prefisso “Sitzi” è legato a diversi significati che vanno dal filo della vite al fiore della margherita e dalla pietra focaia alla cicala. Ma è forse quest’ultimo termine quello più appropriato per essere abbinato alla luce notturna delle stelle, perché le cicale che danzano nelle belle serate estive sono imitate dalle migliori stars luminose dello spettacolo.Il greco Δαιμόνιος (Daimònios), calco del sardo-pellàsgico, significa “appartenente agli dei”. Pertanto, prima dell’avvento del Cristianesimo, le corna taurine portate in testa dai sacerdoti, sacerdotesse e guerrieri sardi erano sinonimo di divinità. I seguaci di Cristo le hanno poi trasformate nel simbolo del male, del Demonio o di Lucifero. I Sardi, testorrudos (tenaci e feroci), le hanno però tramandate fino ai nostri giorni attraverso le maschere carnevalesche dei Merdules o dei Mamutzones e seguendo inoltre a chiamare Monzas o Mòngias le monache della nuova religione.Il capitano Luciano Sechi mi ha raccontato qualche anno fa, nel corso di un’intervista alla mia rivista Logosardigna, che un giorno, mentre viaggiava sul treno che lo portava a casa, ebbe un’ispirazione e vide passare nella sua mente, come fosse il nastro di una telescrivente, il testo dei Dimonios, che, immediatamente, trascrisse e musicò per farne l’inno alla Brigata Sassari. Egli collegò i Demoni ai nostri millenari antenati guerrieri, cantando “s’istiga dei cudda antiga zente, chi a s’inimigu frimmaiat su coro”. Il capitano si ricorda anche più o meno l’orario, erano appena passate le sei di sera, quando “Compare, a s’iscuru, che l’at bortadu in Boe”.