Sputnik incassa solidarietà dai colleghi europei ma… Sì, se ci chiudono, è anche colpa nostra

Una lettera della federazione europea dei giornalisti fornisce un’indiretta forma di solidarietà ai giornalisti di Sputnik, che stanno venendo via via censurati da tutta Europa. Le parole espresse in favore della libertà di stampa ci sono di conforto, ma forse questa è anche l’occasione buona per riflettere su cosa abbiamo sbagliato.
A cosa serve un giornale in lingua italiana pubblicato da Mosca? Ovvio, dovrebbe servire a far conoscere il punto di vista della Russia agli italiani riguardo a grandi tematiche internazionali che coinvolgono tutti. Dovrebbe servire a migliorare la comprensione tra le parti, aiutare a meglio conoscersi.
E allora com’è che dopo tutti questi anni gli italiani non sono ancora riusciti a farsi un’idea di quali siano i veri problemi della Russia, delle paure, delle istanze di questa gente, di cosa significhi per loro la questione dell’allargamento della NATO ad Est, o di cosa sia successo nel Donbass?
Quanti morti ci siano stati, quanti bambini, quante granate sono state tirate? Perché in 8 anni l’Italia non è mai riuscita ad empatizzare con quel dramma, mentre per empatizzare per Kiev sono bastati i primi cinque minuti di guerra?
Semplice, perché noi di Sputnik Italia abbiamo fallito. Certo, mica tutta colpa nostra, ma se c’è una guerra noi ne siamo di fatto coinvolti, perché il nostro compito sarebbe dovuto essere proprio quello di evitarla la guerra, spiegare le ragioni delle parti, far conoscere i problemi, sensibilizzare.
Invece che abbiamo fatto? Abbiamo sfruttato questa lunga splendida finestra aperta tra Occidente e Russia, per andare a guardare i resoconti delle visualizzazioni di Google Analytics e ci siamo scervellati su come ottenere più attenzioni dai motori di ricerca, tante volte pubblicando anche cose del tutto inutili e squalificanti.
Magari avessimo fatto davvero un bel po’ di sana ‘propaganda’, finché eravamo in tempo! Avremmo potuto spiegare chi erano quei bambini negli scantinati fotografati da Andrea Rocchelli, da cosa si nascondevano, di cosa avevano paura. Per poi indagare anche su come è morto il povero Andy.
Oppure avremmo potuto pubblicare tutte le splendide foto che ci ha passato Giorgio Bianchi, sulla vita del Donbass in guerra, ma no, neppure gratis. Il povero Eliseo Bertolasi che ci faceva fior di reportage da Donetsk e noi gli dicevamo “No, grazie, non ci serve”. Oppure l’amico Ennio Bordato, che in tanti anni del progetto AASIB, ‘Aiutateci a Salvare i Bambini’, non siamo riusciti ad aiutarlo a raccogliere per i bambini del Donbass in guerra, tanto quanto hanno raccolto in un nanosecondo in Occidente per Kiev.
La redazione aveva paura che tutto potesse venire interpretato come ‘provocazione’ forse, e che ci chiudessero anche prima.
Oppure avremmo potuto provare a spiegare giorno e notte che un’Ucraina nella NATO per la Russia sarebbe stata come la kriptonite, o, più semplicemente, avremmo potuto far riflettere sul fatto che per evitare le basi sovietiche a Cuba nel ’62 gli Stati Uniti si mostrarono disposti a rischiare una terza guerra mondiale. Forse i nostri in Italia avrebbero capito l’analogia e avrebbero anche loro accettato l’idea che non avrebbe avuto senso spingere troppo la Russia verso punti di non ritorno.
Avremmo potuto fare dei servizi sulla Crimea, per vedere se erano più contenti prima o dopo e chiederci perché mai ai tempi della Jugoslavia era tanto di moda il principio dell’autodeterminazione dei popoli, mentre nel caso ucraino è improvvisamente divenuto dominante, in Diritto Internazionale, il concetto opposto di ‘Unità territoriale’.
Avevamo una splendida finestra aperta, nella quale spiegare con calma che il Donbass voleva solo che venisse rispettata un’autonomia basata su questioni linguistiche e culturali e che la civilissima Europa, tanto sensibile al tema dei diritti, avrebbe pur dovuto smetterla di far finta di non capire questa semplice richiesta. Invece niente. Adesso però scriviamo tutti giorni bollettini di guerra, dove viene specificato che questa è un’‘Operazione Speciale’ fatta per liberare il Donbass. Perché tanto oramai stiamo anche noi sprofondando in modalità ‘cinegiornale’.
Eravamo ad un passo dal far capire certe istanze, certi problemi al nostro mondo Occidentale, mancava poco, iniziavano a sensibilizzarsi. Anche perché in molti c’erano arrivati già da sé a intuire che l’Europa è al centro di giochi e manovre geopolitiche che non controlla più per mancanza di sovranità. Mancava poco. Ed ecco che la mattina del 24 febbraio è crollato tutto.
Il Governo russo ha deciso che una bomba vale più di mille parole. E lì siamo finiti. Io personalmente mi sono sentito finito. Una vita passata a cercare di far in modo che un giorno mia figlia potesse vivere in un mondo libero e fraterno, invece adesso mi ritrovo nel mio peggior incubo: vederla costretta a dover scegliere tra Italia o Russia, da una parte o dall’altra della nuova cortina di ferro.
 

“Crediamo sia difficile imputare a questa newsletter la minima simpatia per Vladimir Putin. O il minimo dubbio su quale sia la parte da cui stare sull’Ucraina. Però siamo giornalisti. E facciamo fatica a sopportare di vedere giornali, siti o TV chiusi per ordine superiore. Non tolleriamo di vedere Facebook oscurata dal Cremlino (e presto la Russia ‘disconnessa’ da Internet), o i media occidentali costretti a lasciare il Paese per non rischiare di finire in carcere per 15 anni per lesa propaganda militare. Ma, per lo stesso motivo, abbiamo molti dubbi sulla decisione del Consiglio europeo di chiudere le emissioni di RT (ex Russia Today) e Sputnik nell’Unione Europea, anche se venisse accompagnata dalle cautele, su durata e controllo degli effetti, chieste anche dalla ministra olandese al Digitale Alexandra van Huffelen, in un’intervista a Politico Europe”, scrive la federazione europea dei giornalisti.

Personalmente, concordo con il principio e ringrazio per la solidarietà indiretta, ma la verità è che niente oramai può più consolare. Indipendentemente dalla censura o meno, indipendentemente da come questa guerra andrà a finire, per chi ama la penna e odia il fucile, il fatto stesso che sia iniziata, è già di per sé una sconfitta definitiva.
Perché chiamatela pure propaganda se vi pare, ma sappiate che quello che volevamo propagandare, al di là di certi nostri limiti e ingenuità, erano pace, comprensione e tolleranza reciproca.
L’opinione dell’autore potrebbe non riflettere la posizione della redazione